Santa Maria Foris Portas a Castelseprio e il Monastero di Torba
Sulla Novaria-Comum, trait d’union di antichi municipi romani come Novara e Como, il più recente abitato di Castelseprio, Sibrium, che aveva seguito lo sviluppo dell’odierna parte meridionale della provincia di Varese in seguito all’ascesa di Milano capitale della Pars Occidentis dell’impero alla fine del III secolo. Un castrum, una postazione difensiva diventata, nel contesto dell’arretramento dei confini a inizio V secolo, uno dei perni della nuova frontiera della penisola italiana: dal riordino del magister militum Stilicone al consolidamento sotto il regno ostrogoto di Teodorico. In età longobarda, quella che per i crismi dell’epoca è ormai una città, viene innalzata a capoluogo di un Contado. I suoi splendori in epoca carolingia (e il Monastero di Torba ne è testimonianza, per quanto oggi parte del comune confinante di Gornate Olona). I primi segni di crisi nel Sacro Romano Impero della dinastia sassone (X sec.). La decadenza con l’ascesa della Milano signorile e la distruzione dopo la conquista operata nel marzo 1287, pare a tradimento, dai mercenari dell’arcivescovo Ottone Visconti. È lo stesso fondatore delle fortune dell’omonima casata a far vergare negli statuti milanesi il suo epitaffio: “Castel Seprio sia distrutto e resti distrutto in perpetuo affinché nessuno ardisca o presuma di abitare su questo monte”.
La nuova Castelseprio sarebbe risorta a distanza dall’antica, per secoli parte del regno vegetale. Solo poche citazioni sparse prima di una lenta riscoperta nell’Ottocento con accelerazione di amore e studio a partire dalla metà del secolo appena passato. E in questo, esattamente nel 2011, finalmente la consacrazione laica del Parco Archeologico come Patrimonio dell’UNESCO.
Una bella soddisfazione per il sottoscritto, che da più di trent’anni torna a contemplare in silenzio questa raccolta di rovine composta con passione e rigore dai nostri contemporanei. La prima volta ripetevo dentro di me quei versi fatali che avevo tradotto dal De reditu (“Il ritorno”) di Rutilio Namaziano (IV sec.):
“Restan solo tracce in mezzo a rovine,
Tetti crollati fra ruderi e mura.
Non sdegnarti se il corpo si disgrega:
Anche le città possono morire”.
Ma non c’era traccia di nostalgia. Studiando storia all’università sapevo bene che solo la nostra distanza e il benessere acquisito dalle faticose conquiste degli ultimi due secoli permettevano la giusta misura di amore e scienza del passato. Ne ho scritto ampiamente, riguardo ad altri capolavori del V secolo, nel mio romanzo Il Dittico di Aosta.
E poi c’era quella chiesa dall’apparenza così modesta, in disparte, Santa Maria Foris Portas, rimasta miracolosamente indenne e, altro miracolo, ricca di sublimi affreschi ritrovati e rivelati fra gli orrori della seconda guerra mondiale dal genio di Gian Piero Bognetti, nel 1944. La datazione delle pitture è ancora oggetto di dibattito: si spazia dal VII al IX secolo (io propendo per la prima metà dell’VIII).
E, alla base del colle, già torre di avvistamento romana parte della cinta muraria di Sibrium, il Monastero di Torba. Ex abitazione di contadini – come il Castello di Quart (AO) che ho già affrontato nei miei studi – acquistato da Giulia Maria Mozzoni Crespi e donato, nel 1977, al Fondo Ambiente Italiano (di cui è stata fondatrice) che l’ha perfettamente restaurato. Per la datazione di monastero e affreschi si parla di epoca carolingia.
Castelseprio-Siria: Santa Maria Foris Portas
Commento musicale Alleluja: Epi si kyrie (canto della chiesa romana nel periodo bizantino)
Ogni volta che torno in pellegrinaggio laico a questo capolavoro assoluto, evanescente la memoria va alle ultime pagine della Storia dei Longobardi del mio caro Paolo Diacono, quelle dedicate all’intensa attività di costruttore di chiese e monasteri del re Liutprando (prima metà VIII sec.).
Nell’arte i Longobardi amavano scegliere a seconda dei casi (politici) simbolismo o realismo. Specie per quest’ultimo, manodopera orientale. E come mi sono chiesto perché sono finito in questi boschi dalle bionde colline delle Marche, così forse anche l’artista siriaco, che immagino fuggito (povera, grande Siria anche allora) dalle lotte iconoclaste dell’impero bizantino. Per affrescare in quello che oggi è silenzio, ma allora vivace cittadina, questo mirabile esodo dall’arte antica. Da un Vangelo apocrifo poi, come quello di Giacomo! Lo stesso illustrato con immagini affini in un dittico eburneo di qualche anno prima, sempre di provenienza siriana.
L’uomo, l’artista, lo straniero – l’artista è sempre straniero – è trasumanato in quella sublime dolcezza dove è la terra a ispirare il cielo. In quella intensità di gesti, di sguardi che non aveva bisogno di parole.
Al monastero di Torba con Rosvita
Commento musicale Ildegarda di Bingen, O tu illustrata
A Torba le gerarchie celesti veramente al femminile. I restauri fatti con amore le restituiscono così terrene, senza quel desiderio di fuga nell’immateriale, figlio dell’epoca, della clausura, l’età, l’umidità. Secolo carolingio, stirpe longobarda, ordine benedettino. Diverse dall’ovale senza volto, candore estremo, il lifting dell’immortalità.
Leggo un nome, “Aliberga”, e ne torna in mente un altro: Rosvita di Gandersheim, la grande commediografa tedesca del X secolo, che nel medioevo cosmopolita reinterpretò con grazia la tradizione latina.
“Che facciamo, sorella, lo mettiamo anche qui, pensoso in riva all’Olona, Terenzio?”.
Attraverso nove secoli e novecento chilometri e immagino qui, a Gornate, una raccolta rappresentazione del suo Calimachus nella chiesa tascabile del monastero: “Opus caelestis gratiae, quae non delectatur in impiorum perditione. (Questa è opera della grazia celeste/ Cui spiace la dannazione degli empi.)”.
“Abbiamo sempre un pensiero gentile anche per i malvagi, vero, sorella? Il male è non essere”.
La traccia dell’orrore passato riposa nella nostra pace, i saccheggi della soldataglia di Ottone Visconti finalmente sconfitti dalle merende al sacco delle scolaresche nelle Giornate del FAI.
Ora sì le rovine delle mura di Castelseprio, eleganti, la bellezza del bosco, dei prati, silenzio.
“Tinnulae sonitum vocis a longe audiemus. (E noi già da lontano ascolteremo/ Il suono di quelle voci argentine.)”.
Testo, traduzioni, foto e fotocomposizioni di Luca Traini