1972: Nixon e Mao fra Ping Pong Diplomacy e un rivoluzionario videogame
Due cinquantenari. Il primo – lo storico incontro fra Stati Uniti e Cina – passato quasi in silenzio, trascorso un secolo e approdati in un altro dalla geopolitica completamente diversa. Per il secondo, quello del videogioco, qualche parola in più ma neanche troppo – la distanza cogli odierni videogame è anni luce – e soprattutto, ancora una volta, nessuna parola sul collegamento fra Diplomazia del Ping Pong e un gioco che ha iniziato ad avere enorme successo proprio col nome di Pong. Disinteresse degli storici? Limiti della critica videoludica? In ogni caso ripropongo, con alcuni aggiornamenti, quanto avevo cercato di chiarire dieci anni fa partendo da un discorso più ampio.
Pace e videogame
Si parla tanto – e quasi sempre a sproposito – di violenza e videogiochi e si dimentica che i videogame sono figli della pace. Infatti l’ideazione del primo, Cathode Ray Tube Amusement Device (opera di Thomas T. Goldsmith Jr. ed Estle Ray Mann), risale non a caso al 1946. Certo, era frutto della tecnologia bellica dei radar e ispirato alla missilistica dell’epoca, ma quante volte l’aspetto ludico della vita si ispira ed esorcizza il suo lato cruento!
Allo stesso modo Tennis for Two (1958), messo a punto per oscilloscopio e computer analogico Donner 30 da W. Higinbotham e R. V. Dvorak, rispecchiava le oscillazioni diplomatiche seguite al disgelo politico fra Est e Ovest nella seconda metà degli anni ’50.
Nel caso di Space War di Steve Russell, realizzato per computer DEC PDP-1 nel febbraio del ’62, ci troviamo poi addirittura di fronte a una specie di prefigurazione profetica (e apotropaica) della Crisi dei Missili di Cuba nell’ottobre dello stesso anno.
L’Odyssey di Pong
Ma il caso più clamoroso di profonda connessione fra storia e videogame riguarda quel gioco dalla doppia vita che è diventato famoso col nome di Pong. Quei formidabili, minuscoli quadrati, precursori di pixel e bit, da immaginarsi come sfere (millenaria ossessione della quadratura del cerchio), che vengono fatti rimbalzare da due piccoli rettangoli ai lati di uno schermo, sono stati una rivoluzione tanto tecnologica quanto artistica(le due realtà vanno quasi sempre di pari passo). E anche nel caso di questo gioco, di questa nuova arte, la storia della nascita sembra legarsi per l’ennesima volta inscindibilmente all’epica. Non a caso il nome originario è Odyssey. Il suo creatore, Ralph Baer, un ingegnere di origini ebraiche emigrato negli USA dalla Germania nazista. Lo sviluppo del suo lavoro, tormentato come il viaggio di Ulisse, frutto di sperimentazioni durate anni – l’incipit è 1966, la stessa data riportata da Debora Ferrari e dal sottoscritto per la prima mostra mondiale dedicata all’arte del videogame che abbiamo curato alla 54.Biennale di Venezia, NEOLUDICA Art is a Game 2011-1966 – fino all’approdo negli schermi televisivi con la prima console domestica, la Magnavox, nel 1972 (presentata in maggio e messa in vendita in agosto).
E’ proprio verso la fine di questo fatidico anno viene anche lanciata la sua versione “coin-op”, frutto (a voler essere benevoli) di quella che in musica verrebbe chiamata Variazione su Tema, ad opera di altri due ingegneri, Allan Alcorn e Nolan Bushnell, quest’ultimo fondatore, insieme a Ted Dabney, della mitica Atari.
Le ragioni politiche di un successo
L’interesse per entrambe le versioni è immediato, ma successo commerciale e grande impatto sulla cultura popolare saranno prerogativa di Pong e del suo elegante cabinato giallo. Infatti colore e rimando al tennistavolo, sport dominato dall’Estremo Oriente dai primi anni ‘50, non erano un caso e non solo per il richiamo “esotico” ai film di Bruce Lee: da un anno era scoppiata la pace fra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese grazie alla Diplomazia del Ping Pong.
C’era già stata tutta una serie di precedenti di influenze reciproche fra Cina e Occidente degna di una saga videoludica: il viaggio di Marco Polo, la missione di Matteo Ricci, la moda delle “cineserie” durante il Rococò, il Grande Gioco fra Gran Bretagna e Russia nell’Asia del XIX secolo e l’influenza della Rivoluzione Culturale maoista sui movimenti del ’68. Tuttavia, il riavvicinamento fra due stati anche e soprattutto politicamente agli antipodi era avvenuto grazie al progressivo disimpegno americano in Vietnam e ai primi scontri fra due potenze comuniste, Cina e Unione Sovietica, sul fiume Ussuri nel 1969. Il realismo politico del primo ministro Zhou Enlai, tolto di mezzo il filosovietico Lin Biao, premeva perché entrambi trovassero un accordo per contenere il gigante russo. Per chi volesse approfondire tutti i retroscena di questa spossante gara di scacchi diplomatica consiglio quanto meno la lettura de La lunga rivoluzione, opera di un maestro dell’azzardo giornalistico, l’americano Edgar Snow, amico di Mao fin dai tempi della Lunga Marcia e non a caso unico invitato occidentale ai festeggiamenti del XXI della Rivoluzione Cinese a Pechino nel 1970 (previo incontro col ministro degli esteri Zhou Enlai a una partita, naturalmente di ping pong, fra Cina e Corea del Nord).
Poi sarebbe venuto il 1971, i campionati mondiali di tennistavolo a Nagoya, in Giappone, con un componente della squadra americana, Glenn Cowan, che sembrerebbe perdere casualmente il suo autobus e venire per questo invitato a salire sul pullman della nazionale cinese. Qui il tre volte campione del mondo, Zhuang Zedong, nel silenzio generale, lo avvicina e gli regala – un caso anche questo? – una serigrafia, ricevendo in cambio qualche giorno dopo una maglietta col simbolo della pace. Un altro e ben più famoso Zedong, Mao, prende la palla al balzo e il giorno prima della chiusura dei mondiali, il 6 aprile, invita l’intero team a una tournée in Cina. Senza incontrare opposizione da Washington – per quanto all’epoca riconoscesse come legittima solo la Cina nazionalista di Taiwan – già il 10 aprile i giocatori fanno il loro ingresso nella Repubblica Popolare via Hong Kong, primi americani (tranne qualche eccezione) a mettervi piede dal 1949.
L’impatto mediatico è enorme.
Subito dopo, in ottobre (è ormai chiaro che il caso non c’entra più), si assiste addirittura all’ammissione della Repubblica Popolare Cinese all’ONU e al suo Consiglio di Sicurezza scalzando proprio la vecchia Cina Nazionalista di Chiang Kai-shek: Risoluzione 2758.
Oggi, con le continue minacce proprio a Taiwan del nuovo Mao, Xi Jinping, tutto questo sembra fantapolitica, ma era il portato degli incontri segreti di luglio fra Kissinger e Zhou Enlai, preludio alla storica visita di Nixon a Pechino nel febbraio del 1972. E, a seguire, anche un altro premier conservatore, Tanaka, da quel Giappone che aveva commesso ogni genere di crimine in Cina dal 1894 al 1945, avrebbe riconosciuto formalmente la Repubblica Popolare di Mao.
Tornando a questa Odyssey divenuta Pong , in aprile, esattamente un anno dopo lo storico evento, lo squadrone cinese è negli Stati Uniti per ricambiare il favore. Il tennistavolo non avrebbe più conosciuto un simile successo di massa.
Happy End, Happy Start
E infatti, mentre precedenti e successive ambientazioni di “giochi al computer” avevano e avrebbero fatto leva sul tennis, è proprio sulla versione in piccolo di questo che, nello stesso settembre, il primo “coin-op” sperimentale di Pong fa il pieno di monete nella Andy Capp’s Tavern di Sunnyvale – nella Silicon Valley! – e, approfittando anche dell’atmosfera di ottimismo creata dal trattato SALT 1, firmato in maggio da USA e URSS, supera poi di slancio perfino la crisi energetica del 1973 entrando nella leggenda.
Zhuang Zedong è morto nel 2013 , ma la sua visita negli Stati Uniti nel 2007 ha certamente ispirato Barack Obama per il suo famoso doppio a tennistavolo col premier inglese Cameron a Londra nel 2011.
Se l’alba dell’era videoludica si tinge di mitico – pensiamo solo al termine “Arcade”, che oltre al suo significato tecnico di “cabinato” rimanda all’Arcadia cara a tanti pittori e poeti – lo si deve anche a un retroscena storico così pregnante perché ricco di attese di pace, di voglia di giocare, finalmente.
P.S. Il ruolo di Neoludica
Da un immaginario di antica data – in questo caso politico – a uno nuovo, quello videoludico, allora ai primordi e in cui oggi ci troviamo immersi. Ricordo lo stupore con cui vennero accolti l’incontro sportivo e quello fra leader così diversi: passavo dall’asilo alle elementari. Alla fine delle medie ero già in sala giochi a farmi strada, fra diverse tribù di adolescenti, in quel muro di fumo di sigarette che quasi ricordava quello d’incenso durante le grandi feste in chiesa, per mettermi alla prova con i primi eredi di Pong. Alla fine dell’università, dopo uno studio approfondito di tutte le epoche, mi laureavo in Storia Contemporanea e quindici anni dopo (2008), lasciato l’insegnamento e diventato curatore d’arte, riflettevo con Debora Ferrari, che aveva proprio diretto un museo d’arte contemporanea, su quali potevano essere cause e sviluppi di questa nuova realtà estetica, quella del mondo dei videogame, che proprio allora era in procinto di lasciarsi alle spalle e condizionare a sua volta i media che l’avevano più direttamente ispirata: cinema e televisione. Fra i risultati di questo brainstorming, che avrebbe portato a due mostre in prima mondiale (ad Aosta nel 2009 e a Venezia, cui ho già accennato, nel 2011), anche le Connessioni Remote fra la nuova arte e quelle precedenti, questa volta nell’arco di diecimila anni, definite in seguito Nuova Filosofia Aumentata. È sulla base di questi presupposti teorici che avrebbero preso negli anni immediatamente successivi anche contributi storici in senso stretto come questo, che ora ripropongo aggiornato per far comprendere l’importanza di un fenomeno dove non sono più in gioco solo nuove estetiche (in virtuale e nella realtà mai sole). Con l’obiettivo che i “war game” restino una valvola di sfogo dentro uno schermo.