di Martina Besana – GO-SPA CONSULTING SRL
Da alcuni mesi i media globali ci stanno abituando ad espressioni come “escalation militare” e “potenziale invasione” per quanto riguarda le crescenti tensioni sul confine russo-ucraino. Per molti esperti e analisti la riaccensione della guerra in Donbass, o addirittura un’annessione da parte del Cremlino della regione orientale formalmente sotto sovranità ucraina, potrebbero presto diventare realtà tangibili.
Ma cosa si cela dietro questo conflitto e quali sono gli aspetti economici e politici in gioco? Innanzitutto, la situazione di permanente crisi di questo confine considerato “caldo” ha radici tutt’altro che recenti, volendo considerare come momento focale il conflitto il 2014 e l’invasione militare russa nelle regioni separatiste del Luhansk e del Donetsk in Ucraina, in risposta alla negazione della separazione unilaterale dei due territori dal governo centrale. L’accordo di Minsk, siglato nel corso dello stesso anno per porre fine agli interventi militari di tutte le parti coinvolte, prevedeva un cessate il fuoco immediato e l’impegno del governo ucraino a concedere maggiore potere e autonomia alle regioni del Donbass, ma l’effetto sortito è stato pressoché nullo nella cessazione delle ostilità.
“Local elections would be held under Russian pressure and in the conditions of the Russian occupation“, aveva affermato all’epoca Oleksandr Merezhko, capo gruppo della delegazione ucraina per il Trilateral Contact Group, organizzazione creata per implementare l’accordo di Minsk, per riaffermare la necessità di Kiev di riottenere il controllo politico dell’area. Le ragioni che però spingevano e spingono tutt’ora la Russia, in questa rinnovata tensione, a fare pressione su Kiev non si riducono alla mera volontà di annessione di regioni filorusse a ridosso dei suoi confini, bensì si fondano sulla ferma volontà di Mosca di evitare qualsiasi opzione di entrata dell’Ucraina, così come di altri Stati limitrofi, nella sfera di influenza occidentale, e in particolare nella NATO.
Non a caso in un recente articolo del The New Yorker sul tema si affronta la questione riprendendo proprio la percezione del presidente Putin descrivendola come la visione di un “ordine ingiusto” post-Guerra Fredda rispetto al passato zarista e imperiale della Russia. Per Putin, quindi, tornare a riposizionare soldati e carri armati sul confine ucraino significa rida re peso alla sua rilevanza geopolitica nell’area, mandando un chiaro segnale all’Europa e ai vertici di Bruxelles. Ed è proprio l’Unione Europea che in questa crisi sul suo confine orientale potrebbe rivestire un gioco primario per quanto riguarda non tanto la mediazione in un possibile accordo di pace di lunga durata, bensì nella gestione delle conseguenze economiche di breve termine. Il gas naturale importato dalla Russia in Europa ammonta a circa il 40% della fornitura totale, rendendo quindi Bruxelles particolarmente sensibile alle tensioni geopolitiche che potrebbero scatenare un rialzo dei prezzi o addirittura una riduzione della quantità di gas importata. Lo scorso 16 dicembre, i leaders dell’UE hanno convenuto sulla decisione di imporre nuove sanzioni economiche, in accordo con Stati Uniti e Gran Bretagna, se la Russia dovesse procedere con l’invasione dell’Ucraina.
Ciò riporta la questione nell’alveo della cosiddetta geopolitica dell’energia, nel quale l’Europa si presenta però con un rinnovato piano di transizione energetica, il “Green Deal”, che potrebbe mettere a rischio le mire di Mosca. Uno degli obiettivi del Cremlino è infatti quello di far allontanare l’Europa da Washington per quanto riguarda la decisione sull’entrata in funzione del nuovo gasdotto Nord Stream II che dovrebbe portare il gas russo in Germania (senza transitare dall’Ucraina) per poi essere smistato in tutta Europa. L’amministrazione americana è contraria perché – a suo dire – il progetto accrescerebbe la dipendenza da Mosca con conseguente crescita della sua influenza sui partner europei. Se, però, Putin decidesse di alzare la posta in gioco sul fronte ucraino utilizzando la strategica carta della riduzione dell’immissione di gas in Europa (in parte sta già accadendo!) ciò potrebbe sortire l’effetto contrario a livello politico, portando Bruxelles a ricompattarsi con gli USA per fronteggiare la crisi. Date queste premesse, l’UE si trova davanti ad un bivio: convincere la Bundesnetzagentur, l’agenzia federale tedesca che si occupa della rete elettrica, del gas, dei trasporti e delle telecomunicazioni, all’approvazione del progetto del Nord Stream II e continuare a basare ampiamente la propria transizione energetica sul gas naturale. Oppure ridurre il livello di approvvigionamento di gas che potrebbe derivare dal nuovo gasdotto imprimendo una forte accelerazione alla svolta green che passa attraverso l’uso di energie rinnovabili e l’incentivazione attraverso sussidi e piani di investimento. Le due strade sono inconciliabili? La fornitura del gas russo in Europa non è solo una questione di mera geopolitica dell’energia, perché i risvolti concreti sulla vita delle famiglie europee si erano fatti sentire già ad inizio ottobre con prezzi del gas che avevano subito un picco a rialzo. Dopo una discesa nelle quotazioni di qualche settimana, la risalita dei prezzi è ricominciata bruscamente a seguito proprio del riemergere delle tensioni tra Russia e Ucraina, raggiungendo a metà dicembre un nuovo massimo storico superando la quota di 129 euro per megawattora nel punto di scambio olandese (ovvero il mercato di riferimento per gli operatori energetici di tutta Europa). Il gas naturale è la fonte primaria di energia nel settore dell’edilizia in Europa ed è il principale responsabile dell’impronta di CO2 negli edifici europei secondo il policy report del 2021 di NTNU Energy Transition. E’ un semplice dato che illustra la massiva importanza di questa risorsa energetica per il mercato europeo e che, come visto, rischia di essere amministrato e gestito più secondo logiche geopolitiche dell’immediato piuttosto che rispondere a necessità strategiche. D’altronde, in una prospettiva più critica, come quella dell’analista Liam Danning di Bloomberg in un suo commento dello scorso 15 dicembre: “Qualunque cosa significhi la transizione energetica, non porrà fine alla geopolitica energetica”. Quindi guai ad essere troppo ottimisti sul fatto che ridurre la dipendenza dal gas naturale russo diminuisca o annulli il potere contrattuale di Mosca sulla questione ucraina. Anche se d’altro canto risulta chiaro che l’accordo di Parigi, a seguito anche dei nuovi accordi siglati in occasione della COP26, richiederà all’Unione europea di ridurre sostanzialmente il suo consumo di risorse energetiche fossili, compreso il gas naturale. L’Unione europea si è data obiettivi ambiziosi verso la transizione verde ma al suo interno sono gli Stati stessi che potrebbero mettere a rischio la possibilità di far sentire una voce europea con i propri avversari e partner internazionali, in primis ovviamente la Russia, attraverso un maggiore e migliore sviluppo delle energie rinnovabili. Nazioni come la Germania hanno infatti tutto l’interesse a procedere speditamente nella transizione “green” riducendo ad esempio il ricorso all’energia nucleare (su cui la Francia continua a puntare) per incentivare l’uso del gas naturale, considerato comunque meno inquinante di risorse come il carbone o il petrolio. È la storia dell’integrazione dell’Unione Europa che si ripete sotto diverse vesti, ma con la stessa trama: stare insieme e cooperare senza però rinunciare ai propri interessi nazionali. Una più profonda e coraggiosa svolta green verso tecnologie che producono energia attraverso fonti rinnovabili sarebbe più faticosa da mettere in atto ma consentirebbe di riposizionare il Vecchio Continente sullo scacchiere internazionale con un solido potere negoziale ed economico.
La crisi in Ucraina è quindi la manifestazione di un problema non destinato a concludersi nel breve termine che trova come possibili soluzioni la spinta del “Green Deal” europeo verso una riduzione della dipendenza dal gas russo attraverso l’incentivazione nell’uso di fonti energetiche non esauribili.