Chiara Marsiglia – Go-Spa Consulting
Un’esperienza è un evento memorabile che coinvolge l’individuo sul piano intimo e personale; la sua permanenza nella memoria è spesso dovuta ad un intenso coinvolgimento emotivo (positivo o negativo) che quell’esperienza ha comportato. La società in cui viviamo, complice la digitalizzazione di molti aspetti dell’esperienza umana (dalla modalità di acquisto fino all’ambito lavorativo e interpersonale) offre la possibilità di condividere in tempo reale e in quantità potenzialmente illimitata qualsiasi esperienza, tanto da aver contribuito alla nascita di una vera e propria “economia dell’esperienza” (experience economy).
Secondo B. Joseph Pine e James H. Gilmore, questo tipo di economia attribuisce un valore non più al prodotto in sé ma appunto al tipo di esperienza che viene progettata e personalizzata per l’utente finale. In quest’ottica, le aziende assumono il ruolo di “fornitrici” di emozioni ed esperienze per i consumatori. L’esperienza può dunque essere vista come una tipologia di offerta che si aggiunge a quelle già presenti sul mercato: commodities (materiali fungibili, vedi tutte le materie prime), beni (manufatti tangibili, come lo sono una chitarra o una matita) e servizi (attività intangibili, come ad esempio una visita medica). La progettazione di un’esperienza riguarda quindi la combinazione e la “messa in scena” di tutti questi fattori.
Per capire meglio l’experience economy si può utilizzare l’esempio di Starbucks. Ciò che viene venduto all’interno del negozio non è più il caffè in sé ma la cultura del caffè, la quale viene espressa attraverso la progettazione dello spazio e delle luci e accentuata dalla possibilità di personalizzare la tazza con il proprio nome: il prodotto diventa quindi la forma attraverso cui viene comunicato un messaggio culturale, mentre gli spazi acquisiscono il ruolo di teatro per la “messa in scena” di una serie di azioni. Gli stessi consumatori acquisiscono il nuovo ruolo di “consumAttori”, diventando quindi parte attiva nella “creazione di esperienze”.
In uno scenario in cui ad avere valore non sono più i prodotti fisici ma artefatti intangibili, spesso condivisi attraverso il nostro smartphone, ciò che subisce un cambiamento è la valuta di scambio: se prima i consumatori utilizzavano denaro per comprare beni e servizi, nell’economia dell’esperienza la nuova moneta diventa “il tempo”. Saper spendere il proprio tempo, il quale è più limitato del denaro stesso, diventa quindi fondamentale: l’obiettivo finale diventa “acquistare” le esperienze migliori, spesso condividendole sui social media. La ricerca verso le esperienze più gettonate e la continua condivisione e visualizzazione delle stesse possono però provocare degli effetti negativi, come una crescente sensazione di ansia scaturita dal desiderio di partecipare a quanti più eventi possibili. La cosiddetta FOMO (fear of missing out), si può tradurre infatti con la “paura di rimanere escluso”. Viene definita come l’ansia sociale di chi desidera essere costantemente in contatto con le attività a cui partecipano i propri amici e coetanei per non essere esclusi dalle esperienze altrui. È un fenomeno che coinvolge anche i mercati finanziari: la FOMO si concretizza nella necessità degli operatori di seguire un trend (tipicamente a rialzo) per “paura di restarne fuori”, perdendo l’occasione da esso generata. La generazione che ne soffre maggiormente sono i Millennials, la fascia di popolazione nata tra il 1980 e il 2000, ma è una sensazione che può accomunare tutti con modalità e intensità differenti. I social network, assumendo il ruolo di “catalizzatori” di esperienze, fungono sicuramente da amplificatori di questo fenomeno, mostrandoci un “catalogo pressoché infinito” di eventi – quindi “potenziali nuove esperienze” – a cui potremmo partecipare (se solo avessimo abbastanza tempo!).
La paura di sentirsi esclusi da un gruppo è però un’emozione umana che è sempre esistita, anche molto tempo prima dell’avvento del web e dei social. Il fatto che si presenti una forma di ansia se non si viene invitati ad una festa o se non si può prendere parte ad un impegno è normale e fisiologico, poiché si teme di perdere delle occasioni di condivisione sociale. Il problema sorge però quando questa necessità di partecipare ad ogni evento o di essere sempre collegati ai social viene estremizzata, incidendo negativamente su altre attività della vita quotidiana. Quello che l’experience economy e il ruolo dei social network rischiano di provocare nelle persone è quindi un bisogno costante di riempire il proprio tempo, lasciando poco spazio per altri fenomeni fisiologici quali “il tempo libero”, visto come solitudine e noia, quindi minaccia da cui distanziarsi.
Se il voler essere sempre impegnati e connessi sovraccarica la nostra mente, facendoci sentire stressati e agitati, creare spazio per il “tempo libero” potrebbe invece aiutare a liberare la mente e a creare uno stato di rilassamento generale, in cui l’unico fine diventa vivere nel momento presente. In uno scenario prossimo potremmo quindi assistere ad un aumento delle attività di digital detox (disintossicazione digitale) in cui l’obbiettivo diventa la riconquista del tempo per annoiarsi e per riscoprirsi come persone, indipendentemente dal contesto sociale circostante. Il rimanere soli potrebbe perciò passare dall’essere concepito come qualcosa da evitare ad ogni costo all’essere il nutrimento essenziale per il nostro equilibrio interiore. Inutile aggiungere che attorno a questa rinnovata consapevolezza potrebbe svilupparsi una più strutturata industria del digital detox, che già negli ultimi anni ha iniziato a prendere piede tra i più giovani attraverso ad esempio le pratiche di mindfulness e la divulgazione del tema da parte degli stessi influencers.