di Chiara Milani
Vi sono libri che possiedono una grazia speciale, libri luminosi che travalicano ogni categorizzazione e ogni aspettativa, sorprendendoci. Ad uno di questi affido il messaggio di apertura della nuova rubrica culturale di LarioIN.
Credere nel vuoto è il piccolo, incantevole libro del resoconto della conversazioneche Philippe Petit tenne nel 2008 al festival Torino spiritualità incantando un folto pubblico parlando di etica, delle azioni e dei comportamenti coerenti con principi morali, del credere in sé stessi e nel contempo dell’essere umili.
“Vorrei parlare di me e di quarant’anni di teatro nei cieli di tutto il mondo”, è l’accattivante incipit del libro. A ventiquattro anni, Petit ha teso un filo sulla sommità delle scomparse torri gemelle di New York e ci ha camminato sopra andando dall’una all’altra. Da allora non si è più fermato, continuando ad attraversare i cieli del mondo disobbedendo alla gravità: ha passeggiato tra i campanili di Notre Dame, sul ponte della baia di Sindey, sopra stadi e cascate; si è esibito in camminate clandestine, ha lavorato per grandi registi, per l’anniversario della dichiarazione dei diritti dell’uomo, per raccogliere fondi in favore di molte cause.
Ma prima di avventurarsi tanto in alto, quando di anni ne aveva solo diciassette, scrisse il Trattato di funambolismo del quale dopo oltre cinquant’anni, dice: “non cambierei neppure una virgola”.
In Credere nel vuoto le sue imprese impossibili sono richiamo e suggerimento perché il vero argomento è un altro, racchiuso in queste parole: “alle persone come me la parola impossibile non piace, infatti non la uso mai”.
Passione e amore guidano le sue scelte: “ci sono parole che ripeto spesso, e passione è una di queste”, ma Petit ricorda anche che ogni scelta di vita ha un prezzo, ogni scelta è un confronto con gli altri. Molte volte bisogna mediare, ma mai cedere: “e non ditelo a nessuno, ma credo che le persone qualche volta siano pagate per dire di no”. Non era tra costoro il vescovo di Saint John The Divine di New York, che ha invitato quest’uomo non credente ma rispettoso del modo di pensare altrui, che dice di affidarci al nostro intuito ed invita ad “essere dei fuorilegge”, quale ospite fisso della Cattedrale dove ora ha il suo studio nel triforio, la galleria che corre sotto la navata.
Il funambolo Petit si definisce più volte “ingegnere” perché prepara meticolosamente i suoi ardimentosi progetti ma anche “poeta”, perché le sue imprese nascono dai sogni. Due mondi non lontani, come ricorda l’etimo greco del vocabolo poesis: produrre e comporre poesie sono attività creative dal risultato pratico, tangibile.
Petit parlando di sé ha parlato della poesia insita nella natura umana, di aspirazioni personali e collettive, toccando profondamente il nostro cuore. Le parole che chiudono il suo saggio siano augurio per tutti noi, che sulla terra dovremmo essere ospiti felici: “Quindi, andate a casa e sognate”.