di Martina Besana – GO-SPA CONSULTING SRL
“Non è possibile perseguire simultaneamente la democrazia, l’autodeterminazione nazionale e la globalizzazione economica” scriveva l’economista Dani Rodrik nel 2015 nel suo “La globalizzazione intelligente” riferendosi alla natura disruptive della globalizzazione.
Quest’ultima, divenuta con ogni probabilità la protagonista assoluta degli ultimi 30 anni, è tornata infatti a ricoprire un ruolo centrale nell’attuale dibattito pubblico con l’emersione di alcuni elementi di vulnerabilità strutturali. Come indicava Rodrik, infatti, la globalizzazione è di per sé un processo contradditorio perché se da una parte connette il mondo e lo spinge verso un’unificazione delle “regole del gioco”, dall’altra si scontra con gli interessi nazionali degli stati. Vediamo, però, qual è la definizione e la storia del fenomeno di globalizzazione attuale, che gli storici ci ricordano non essere stato l’unico e neppure il primo, bensì preceduto da almeno due grandi esempi come quello dell’Impero romano e dell’epoca Vittoriana. Come sottolinea anche l’analista geopolitico Dario Fabbri, la definizione più essenziale di globalizzazione deve comprendere il controllo militare dei mari e degli oceani, esercitato attraverso la vigilanza sugli stretti da parte di una sola potenza, che contribuisce a creare un solo mercato globale. L’accento sul libero commercio è quindi errato, nonostante lo scambio commerciale tra paesi rimanga l’aspetto più evidente del fenomeno di globalizzazione che ha preso avvio dagli anni ’90.
Da questa situazione, però, il passo verso quella che in molti definiscono l’“iper-globalizzazione” è stato relativamente breve. L’esplosione della crescita del commercio globale è stata guidata dall’espansione del commercio intra-industriale, ovvero lo scambio di componenti all’interno dello stesso settore, tra paesi sviluppati prima e paesi emergenti dopo. Sono nate così le catene del valore globale che hanno coinvolto settori ad alta e bassa intensità tecnologica e che hanno permesso a molti paesi di crescere economicamente sfruttando la strategia di crescita orientata all’export. L’integrazione dei mercati nelle global value chains è quindi il fattore alla base dell’estremizzazione della globalizzazione, la quale è stata esacerbata in seguito anche dalla nascita di compagnie transnazionali, dalla liberalizzazione finanziaria (in alcuni casi così estrema da portare l’intero sistema alla crisi finanziaria del 2008), e dal rapido cambiamento tecnologico. Inoltre, la manifattura si è spostata dai paesi ad alto reddito a quelli a basso reddito, mentre i paesi avanzati hanno imboccato la transizione da economie industrializzate ad economie focalizzate sui servizi. Il processo ha portato vantaggi pratici soprattutto per le grandi imprese, che hanno saputo sfruttare ampie economie di scala e la delocalizzazione degli impianti verso paesi con costi di lavoro minori, e per i consumatori, che hanno avuto accesso a una maggiore varietà di prodotti. E anche chiaro, però che la globalizzazione abbia creato winners e losers. Come ricorda in un’intervista l’economista Branko Milanovic, in un mondo iper-globalizzato: “Il nostro reddito dipende sempre più da scale e considerazioni internazionali. Ma quando il risultato non ci soddisfa, non c’è nessuno a cui rivolgersi. In passato potevi almeno rivolgerti ai politici nazionali e alle istituzioni nazionali e aspettarti dei risultati, ora c’è una mancata corrispondenza su scala globale“. Negli ultimi due anni, il processo di integrazione illimitato dei mercati ha subito considerevoli arresti che, come li considera l’ex ministro Giulio Tremonti, sono semplicemente “incidenti della storia” che hanno solo fatto emergere contraddizioni insite nel sistema. Se ne possono rintracciare almeno 3, ma la lista potrebbe continuare.
Sicuramente, l’improvviso scoppio della pandemia da Covid-19 ha trovato i paesi impreparati di fronte ad un possibile dissesto delle catene del valore, a partire dal settore dei trasporti, marittimi e terrestri. La diffusione del virus ha fatto rallentare il sistema degli scambi mondiali, almeno temporaneamente, e ha fatto emergere le fragilità di uno schema economico basato sul profitto e sul vantaggio senza alcuna considerazione per la sostenibilità ambientale e sociale. I numerosi lockdown hanno poi contribuito ad aggravare la crisi aggiungendo disoccupazione, chiusure di attività e aumento del debito, pubblico e privato. Il mondo, ma soprattutto gli esseri umani, come scriveva nel 2020 il politologo Vittorio Emanuele Parsi, “si sono riscoperti tutto d’un tratto vulnerabili”. Se poi si aggiunge l’effetto amplificatore dei confinamenti imposti nei paesi “hub” del mondo globalizzato, come la Cina, che incidono significativamente sulla logistica e sull’export mondiale, allora le conseguenze negative dell’iper-globalizzazione si sono rilevate perfino maggiori. In secondo luogo, la guerra in corso tra Ucraina e Russia ha dimostrato in modo plastico perché un’integrazione economica squilibrata, “selvaggia”, poco diversificata sul lato degli approvvigionamenti, e ineguale dal lato della redistribuzione delle risorse sia un rischio per tutti.
Il 24 febbraio 2022, primo giorno di guerra, gli italiani si svegliavano con un prezzo della benzina sorprendentemente alto e solo da allora sembra che quel sogno, in cui non era davvero necessaria la transizione energetica e i partner commerciali erano sempre allineati ai nostri interessi nazionali, sia finito. Infine, lo sviluppo tecnologico nell’era del Web3, è l’ultimo elemento che, spiazzando la manodopera e aumentando il costo-opportunità degli spostamenti, potrebbe dare il “colpo di grazia” alla globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta finora.
Ci sono quindi diverse sfide che l’attuale mondo globalizzato deve e dovrà affrontare se vorrà continuare a sopravvivere ad ulteriori crisi, sia strutturali (pandemia, cambiamento climatico) che geolocalizzate (guerre, crisi economiche). Innanzitutto, i governi dovrebbero riflettere sulla sostenibilità del dislocamento sfrenato delle catene del valore e dei siti di produzione, ripensando al re-shoring di imprese nazionali dall’estero in patria come elemento di opportunità per lavoratori, imprenditori e famiglie. In questo senso ritorna utile il concetto di “glocalizzazione” ovvero di ridimensionamento della globalizzazione tenendo conto delle considerazioni sia di natura locale che globale. Ma qual è la strada giusta? “Io non ho dubbi: la democrazia e la determinazione nazionale devono prevalere sull’iperglobalizzazione” spiega ancora Rodrik “Le democrazie hanno il diritto di proteggere i loro sistemi sociali, e quando questo diritto entra in conflitto con le esigenze dell’economia globale, è quest’ultima che deve cedere. Uno strato sottile di regole internazionali, che lascino ampio spazio di manovra ai Governi nazionali, è una globalizzazione migliore, un sistema che può risolvere i mali della globalizzazione senza intaccarne i grandi benefici economici”. Non serve quindi una globalizzazione estrema, riassume lo studioso con uno slogan, ma una globalizzazione intelligente.