di Lucrezia Ferrero – Go-Spa Consulting
Intorno alla metà del 2021, il sistema economico delle principali potenze mondiali ha dovuto affrontare un’importante sfida: un forte shock inflattivo con un’economia ancora in fase di ripresa post-pandemica. In realtà, parte del fenomeno si era già manifestato appena dopo la crisi pandemica, in seguito alla ripresa dell’economia e quindi della domanda aggregata (le persone uscite dal lockdown hanno ricominciato a consumare vivacemente!). La domanda aveva reagito così tanto alla fine delle limitazioni pandemiche arrivando a superare la capacità dell’offerta di soddisfare i nuovi bisogni, ponendo le basi per l’aumento generalizzato dei prezzi (l’inflazione appunto). Questa pressione inflattiva è stata poi accentuata, a partire dalla metà del 2021, dallo shock energetico, amplificato dal conflitto russo-ucraino. Tale shock inflattivo ha però posto le Banche Centrali di fronte a un bivio. Da un lato, il rialzo dei tassi di interesse, necessario per frenare la pressione inflattiva, rischiava di ostacolare un’economia reale che aveva appena iniziato a riprendersi. Dall’altro, il mantenimento dei tassi a livelli bassi e a cui il sistema economico era stato ormai abituato, avrebbe permesso all’economia di tornare a crescere, ma al costo di avere un tasso di inflazione molto, (forse troppo!) elevato.
Considerando il caso dell’Eurozona, la sfida è stata persino più importante: la Banca Centrale Europea (BCE) ha dovuto affrontare non solo lo shock inflattivo, ma anche le diverse sensibilità politiche che da sempre coesistono all’interno dell’Unione monetaria. Nel definire un unico corso di politica monetaria comune, la BCE si è infatti trovata di fronte diverse politiche fiscali in capo ai governi nazionali, le quali potevano anche essere in contraddizione con le scelte di tipo monetario.
Per comprendere come la gestione dello shock inflattivo abbia creato divergenze importanti nel panorama politico europeo, è però necessario capire come le variabili dell’inflazione e del debito pubblico siano legate tra loro. Innanzitutto, il debito viene sempre espresso come rapporto debito-PIL: se nell’economia si verifica uno shock inflattivo, il PIL (nominale), cioè il denominatore, crescerà, facendo diminuire il suddetto rapporto. Su quest’ultimo può impattare anche l’inflazione, che influenza il numeratore, cioè il debito, ma in che modo?
Quando c’è inflazione, gli investitori richiedono un rendimento (quindi un tasso di interesse) maggiore, per compensare l’erosione del rendimento reale dato dall’inflazione. Questo aggiustamento al rialzo dei tassi di interesse (che quindi rende il finanziamento del debito pubblico più costoso) nel breve periodo impatta però solo sui titoli di nuova emissione e su quella piccola porzione di titoli (già in circolazione) a tasso variabile e indicizzati all’inflazione.
Con uno shock inflattivo, quindi:
1) Il denominatore del rapporto debito-PIL aumenta;
2) Il numeratore del rapporto debito-PIL aumenta ma non in modo meno proporzionale (nel breve periodo). Dunque, nel complesso, si assisterà a una diminuzione del rapporto debito-PIL. Nel lungo periodo, invece, (fermi gli altri fattori) le due componenti del suddetto rapporto aumentano in modo più o meno proporzionale, con un effetto erosivo dell’inflazione sul debito decisamente inferiore.
Una volta esaminato il rapporto tra inflazione e debito pubblico, possiamo meglio comprendere la genesi delle tensioni politiche che sono nate all’interno dell’Eurozona. I Paesi europei con un elevato debito pubblico sono infatti meno propensi a combattere l’inflazione, sia per l’effetto benefico del fenomeno sui conti pubblici, sia perché, per combattere l’inflazione, è necessario un rialzo dei tassi di interesse, che renderebbe il debito più costoso. Al contrario, i Paesi detti più “rigorosi”, che hanno quindi sempre mantenuto un basso livello di debito pubblico, sono più propensi a combattere l’inflazione, al fine di riportala al livello del target del 2% (indicato dalla BCE). Questo scontro tra i Paesi membri è dovuto al fatto che Eurolandia ha la caratteristica di avere una politica monetaria comune, ma le politiche fiscali restano nazionali con differenti effetti su deficit e debito per quanto concerne il livello dei tassi di interesse.
Quale può dunque essere il destino dell’Eurozona a fronte di questo contrasto? Come risolvere questa tensione tra i vari Paesi membri? Per conciliare le diverse esigenze, è importante, un maggiore confronto e dibattito sia tra i Paesi membri che tra essi e le principali istituzioni europee, in modo da raggiungere un’omogeneità sempre maggiore tra le diverse fiscalità nazionali. Le esigenze degli Stati membri e le decisioni delle istituzioni europee dovrebbero, cioè, essere più integrate, in modo tale da rafforzare l’economia europea e rendere l’euro una moneta più affidabile. Solo un’Europa che lavora in modo più efficiente ed integrato potrà essere pronta e reattiva rispetto alle più importanti sfide economiche e politiche che oggi caratterizzano lo scenario globale.