di Hindolo Ken Gborie – Go-spa Consulting
Attualmente la regione del Sahel si trova ad affrontare numerose instabilità, manifestatasi sotto forma di rivolte politiche, colpi di stato e guerre civili. È quanto accaduto di recente in Niger, Gabon, Mali e nel brutale scenario del Sudan. L’instabilità politica non è certo un fenomeno nuovo in Africa ma è possibile che gli africani si trovino di fronte a una recrudescenza dell’era rivoluzionaria? È destinato a colpire tutti i Paesi? Che effetti avrebbe nel mondo odierno a livello geopolitico ed economico? Cosa significherebbe per gli investitori e i loro investimenti?
In un mondo sempre più interconnesso dal punto di vista economico, quando il “carburante (l’Africa) starnutisce”, il resto del sistema è destinato a contagiarsi “prendendo il raffreddore”. L’instabilità politica fa aumentare il rischio finanziario, il rischio operativo, il rischio di volatilità e il rischio di mercato, incidendo pesantemente sugli investitori e sui loro investimenti. Quello che l’Africa e gli investitori stranieri dovrebbero evitare, per non alimentare il fuoco delle crisi, è la ripetizione degli errori compiuti nel “caso Firestone” in Liberia negli anni ’90. Nel tentativo di recuperare i profitti e proteggere i propri investimenti in mezzo alle turbolenze politiche, la compagnia “Firestone” sponsorizzava attivamente e “involontariamente” il signore della guerra liberiano Charles Taylor e il suo governo illegittimo, favorendo così, sempre “involontariamente“, i conflitti regionali.
La regione più instabile è quella del Sahel, che si trova in Africa centrale e si estende dalla regione semiarida dell’Africa occidentale e centro-settentrionale, dal Senegal verso est fino al Sudan. Il Sahel tende a mantenere la sua importanza per l’Europa e il resto del mondo grazie al suo vasto potenziale minerario e alle risorse energetiche rinnovabili, che vanno dall’uranio al petrolio e all’oro. Per questo motivo, l’Europa è destinata a subire l’oscillazione dei prezzi di alcune delle risorse prime importate: l’ascesa dei prezzi dell’uranio potrebbe essere solo la prima di molte altre. Se questa crisi si diffondesse tra le altre nazioni della regione del Sahel, ricca di risorse naturali, l’Europa intera subirebbe un duro colpo economico, aggravato dalla spinta dei leader delle giunte africane a rinegoziare i termini degli accordi (da sempre favorevoli alle cancellerie europee), che sono stati stipulati nel corso degli anni. La Francia e gli investitori francesi potrebbero essere i più colpiti da questo scenario, a causa soprattutto del desiderio di rivalsa verso il neocolonialismo di Parigi, applicato da decenni attraverso l’uso del franco CFA. Per garantirsi l’indipendenza, le ex colonie africane della Francia hanno infatti dovuto firmare undici patti. Tra questi, i più disincentivanti per la loro crescita sono l’Accordo N⁰2, che prevede “la confisca automatica delle riserve finanziarie nazionali” e l’Accordo N⁰3 che impone “il diritto di prelazione su qualsiasi risorsa grezza o naturale scoperta in questi Paesi“. L’instabilità politica ostacola poi lo sviluppo dell’agricoltura, che è il motore dell’economia africana e che, con diversi milioni di euro di investimenti da parte di aziende europee, costituirebbe un ulteriore shock sui profitti. Pertanto, la diffusione della “sindrome del colpo di stato” deve essere contrastata anche (e soprattutto) nell’interesse europeo: gli affari richiedono fiducia nei propri partner, ma i governi militari tendono a ridurre questo fattore, a causa della loro imprevedibilità.
La condizione economica della maggior parte dei Paesi della regione del Sahel è già di fatto compromessa. Questo fattore unito all’instabilità politica potrebbe favorire l’afflusso massiccio di migranti dalla regione verso l’Europa, che al momento non sembra in grado di gestire efficacemente questi flussi. Vale, infatti, la pena ricorda che la migrazione, regolare o irregolare, presenta sia sfide che opportunità per i Paesi ospitanti.
Per concludere la disamina sul Sahel, una rapida osservazione sulla paventata “invasione” russo-cinese in Africa. Non si tratta di un fenomeno del tutto nuovo in Africa, ma sicuramente nell’ultimo decennio ha assunto una piega dai contorni più chiari e definiti. Questo aumento della presenza cinese e russa nel continente può essere accreditato alle cosiddette “regole di ingaggio” con cui i leader africani verificano che, a differenza dell’Occidente, da Mosca e Pechino vengono considerati apparentemente come “loro pari nell’arena degli affari”. Tuttavia, vale la pena notare che queste politiche negoziali sono tutte in salita e ancora conformi a logiche di sfruttamento, soprattutto per quanto riguarda la scarsa o nulla attenzione ai danni ambientali. In questa situazione sorge pertanto il timore che l’Africa non sviluppi una politica economica autonoma, ma stia in realtà solo “cambiando il colonizzatore”.
Per arginare questo rischio, i Paesi europei dovrebbero essere pronti ad intavolare discussioni per loro “scomode” per rinegoziare gli accordi, in particolare interrompere o riformulare quelli basati su una subordinazione delle controparti africane. Tra russi e cinesi, gli europei, per cultura e afflato, sono sicuramente i soggetti che meglio di tutti potrebbero essere in grado di formulare con attenzione strumenti di aiuto che non favoriscano la dipendenza, bensì coltivino un ambiente davvero autosufficiente per le nazioni africane.