“Ce non buete mangià carne, bive brote” “Se non puoi mangiar carne bevi brodo”, proverbio barese
Eccoci all’appuntamento mensile sull’educazione alimentare, che, come vi ricordo, affronta il tema da una più ampia prospettiva per permettere di accostarci con maggior consapevolezza alla scelta di prodotti più o meno tipici per assorbirne al meglio principi nutrizionali e per preparaci una dieta ricca e varia.
E’ la volta della carne, molto amata e molto rinnegata, a seconda dei gusti o delle convinzioni etiche. Per completezza d’argomento tratterò anche questo alimento.
Nella preistoria, la carne è arrivata appena dopo le bacche, quando l’uomo ha cominciato a cacciare animali. Poi con la scoperta del fuoco, si apre la possibilità di cuocerla, bollirla, affumicarla, essicarla, in modo da avere una dispensa per i mesi di bisogno e mantenendone i valori nutritivi. Fino agli anni del boom economico è stata simbolo di ricchezza, potenza e privilegio di pochi.
Oggi per molti rappresenta un abituale secondo piatto o una cena qualche volta la settimana. Quindi è da considerare parte del nostro bagaglio culturale gastronomico. Come del resto lo sono gli insaccati derivati dalla lavorazione della carne soprattutto di suino che si portano dietro un
patrimonio di profumi, lavorazioni e stagionature differenti. Ogni regione italiana ha una propria tradizione di macellazione degli animali con radici storico-gastronomiche precise. Ecco un esempio tratto dal libro Il mulino del Po, attraverso le parole di Riccardo Bacchelli, si tratta di un’ ordinazione in un’osteria. “Vorrei mangiare qualcosa”. “Abbiamo del maiale arrosto tenerino, del cotechino freddo squisito”. “E prosciutto?”.
“Prosciutto no, abbiamo del culatello”.
Più in generale avrete spesso sentito parlare della pregiata razza chianina. Prende il nome dalla Val di Chiana, dove è stato ritrovato un bronzetto di origine etrusca che rappresenta un uomo intento ad arare con due buoi di razza chianina. Apprezzabili anche il Vitellone Bianco dell’ Appennino Centrale che si ottiene da bovini di uno/due anni di razza chianina, marchigiana, romagnola. Sono carni pregiate per le loro caratteristiche qualitative e nutrizionali dovute alle tecniche di allevamento e alimentazione presente nei pascoli della dorsale appenninica del centro Italia.
L’altra carne fresca italiana protetta da IGP è l’Agnello di Sardegna, dove l’allevamento ovino ha trovato un terreno ideale fin dall’antichità. Per quanto riguarda le carni trasformate, partendo dal prosciutto, possiamo puntualizzare che pur trattandosi della coscia posteriore del maiale, i diversi e disparati trattamenti a cui piò essere sottoposta determinano le diverse tipologie, anche se quando si nomina il prosciutto di riflesso si
pensa a Parma o al San Daniele. In realtà di prosciutto se ne producono molte varietà. Si pensi al prosciutto di Carpegna DOP, nelle Marche, la cui lavorazione risale all’epoca romana. Ricavato da maiali magroni a pelo nero, viene salato, lavato con aceto, massaggiato con pepe nero ed esposto al fumo ( procedura non sempre applicata), mentre il tipo a “ghianda”, viene aromatizzato con ginepro. Al taglio presenta un colore rosa salmonato, gusto delicato e dolce. In Umbria, nel comprensorio della Val Nerina, 500 m. d’altitudine, si lavora il Prosciutto di Norcia IGP. Qui la tradizione della lavorazione del maiale è molto antica e risale, come a Carpegna, alla dominazione romana. La qualità del prosciutto deriva dall’ambiente naturale, le dorsali montuose che, da una parte, impediscono l’arrivo di aria umida dal mare, dall’altra con le loro formazioni
calcaree favoriscono una dispersione veloce dell’acqua piovana. Il colore varia dal rosato al rosso, sapido ma non salato. Altrettanto sapido ma delicato è il Prosciutto Toscano DOP. Le sue caratteristiche derivano dalla presenza di vallate e colline ricche di boschi. Durante la lavorazione il prosciutto, che è crudo, subisce una maggiore salatura. La gradazione va dal rosso chiaro all’acceso.
Risulta magro, saporitissimo e compatto. La sapidità lo fa ben sposare con il pane toscano, per sua tradizione insipido. In altre zone d’Italia, la lavorazione e conservazione di queste carni è addirittura precedente l’arrivo dei Romani. Il Veneto è una di queste terre, la tradizione è proseguita fino ai nostri giorni lasciandoci ricette cinquecentesche e in documenti del Seicento dove si parla di un prosciutto di Padova. Si trattava del
Prosciutto Veneto Berico-Euganeo DOC, come viene chiamato ora. Ottenuto da cosce fresche, di un colore tendente al rosso, aroma delicato e dolce. La sua area di produzione si estende in ventiquattro comuni del Veneto. C’è però un altro prosciutto con una storia ancor più antica. Il prosciutto di Modena DOP, che alcuni fanno risalire addirittura all’ Età del Bronzo, anche se la conservazione della carne con il sale si afferma sotto i Celti e si affina sotto i Romani. E’ un prosciutto dalla caratteristica forma a pera che si presenta, al taglio, color rosso vivo, profumato, dolce e sapido. All’epoca dei Celti risale anche la produzione del San Daniele DOP da San Daniele del Friuli, Udine. La storia narra che, in epoca medioevale, stabilisse la sua residenza estiva il patriarca di Aquileia, il quale esigeva gli fossero pagate le tasse dovute in prosciutti (il processo di lavorazione durava dai 12 ai 13 mesi). La sua forma è a chitarra, color rosso-rosato, sapore dolce e delicato. Le cosce provengono da dieci regioni del Centro e del Nord d’Italia, da suini selezionati.
La stagionatura prevede sale marino in quantità modeste. Un altro prosciutto “storico” lo troviamo in Valle d’Aosta. I primi documenti risalgono al 1397 nel territorio di Saint-Rhemy-en-Bosses e parlano di “ tybias porci”, da lì in poi il Jambon de Bosses DOP si attesta nella tradizione e nella cultura del luogo. Di color rosso, leggermente salato e aromatico. Questo prosciutto è sicuramente unico nel suo genere grazie al clima freddo temperato della montagna, le poche precipitazioni e l’esposizione al sole del territorio di produzione. Vero gioiello della tradizione gastronomica è il Parma DOP, conosciuto in tutto il mondo. Venti mesi di stagionatura offrono una dolcezza insuperabile, profumo e gusto pieno e delicato.
Dati dall’ambiente, dal clima, dalla flora che ancor oggi caratterizzano quei luoghi di produzione.
Riconoscibile dal marchio impresso a fuoco sulla cotenna: la corona ducale, marchio del Consorzio fra produttori. Spostiamoci ora in Lombardia per trovare il conosciuto Salame Brianza DOP. In questa regione si producono salami dall’epoca longobarda. Maggior impulso venne dato da alcuni ordini monastici che incentivarono la norcineria soprattutto per motivi medico-terapeutici.
E’ prodotto con maiali provenienti da Lombardia, Piemonte o Emilia-Romagna, sulle colline della Brianza, nelle province di Como lecco Milano, a
350m di altitudine per una perfetta stagionatura e asciugatura. Sempre ai Longobardi si fa risalire il Salame di Varzi DOP, pare che solo da quell’epoca si sia diffuso il consumo di carne suina. Nel XII secolo si afferma grazie ai marchesi Malaspina che lo producevano per uso familiare nel loro feudo di Varzi (PV). Può richiedere 45 giorni di stagionatura. La stagionatura ne determina l’aroma, il sapore è delicato. Il Salame Piacentino era presente sulle tavole di re e principi già agli inizi del XVIII secolo.
Lo si trova in Francia e presso le corti di Filippo V di Spagna, portato dal cardinale piacentino Giulio Alberoni. Aroma intenso e sapore dolce. Anche la Pancetta piacentina ha origini che risalgono almeno al Medioevo. Profumo gradevole, gusto dolce, caratteristiche legate alla zona di produzione, dove la vegetazione boschiva e vallate temperate consentono una stagionatura lenta e graduale. Questa pancetta fa parte dei prodotti stagionati da conservare crudi. Ricordiamo, sempre a Piacenza, la Coppa piacentina DOP, prodotta fin da epoca romana con carne di suino cruda, salata e stagionata. Si lavora nelle province di Piacenza ad altitudine superiore ai 900m. Un altro prodotto particolare è la Soppressa Vìcentina DOP, che esige, cruda, un contorno di sottaceti, o appena scaldata si accompagna ai pisacani in primavera, alle verze o ai capussi sofegati d’estate, alle ravizze in autunno, ai crauti in inverno. In Valtellina si ricorda un IGP, la Bresaola, che prevede salagione ed essicamento dal XV secolo, si ricava da carne bovina. Per lo Speck dell’Alto Adige IGP, si risale al XIV secolo, ma è solo dal Settecento che l’antico “bachen” si trasforma in Speck. Si usa la coscia di maiale salata e aromatizzata, quindi affumicata a freddo e messa a stagionare a lungo.
L’affumicatura regala allo Speck un sentore di fumo, bilanciato dagli aromi del pepe nero, del pimento, dell’aglio, delle bacche di ginepro, utilizzati durante la salatura. Un altro prodotto DOP è il Lard d’Arnad, prodotto dall’epoca barocca e ricordato nei documenti dal 1763, lavorato solo nel comune di Arnad, Valle d’Aosta.
Antica anche la storia del Culatello di Zibello DOP, che si ricava da cosce di suino adulto. Stagionatura non inferiore agli 11 mesi, gusto dolce e delicato e profumo intenso. Forma a pera e imbrigliato in rete. Discendono da una lunga tradizione gastronomica già documentata agli inizi del 500 negli scritti del medico e storiografo Marco Cesare Nannini, lo Zampone Modena IGP e il Cotechino modena IGP. Più precisamente sono stati creati dai macellai di Mirandola durante l’assedio delle milizie papali di Giulio II nel 1511. Si incominciò così ad insaccare carne di maiale nella cotenna e poi anche nello zampone completo di falangi.
Alla fine del Settecento queste preparazioni soppiantarono la Salsiccia gialla di Modena. Il più famoso insaccato è comunque la Mortadella di Bologna IGP, XVI secolo. La zona di produzione è molto vasta.
Profumo persistente ed aromatico, sapore delicato. I salumi, come spesso detto per altri alimenti, non sono un’esclusiva del Nord Italia. Si ricordano a questo proposito: Soppressata, Capocollo, Salsiccia, Pancetta. La produzione risale alla colonizzazione greca ma il primo riferimento scritto al XVII secolo. I censimenti voluti da Gioacchino Murat hanno prodotto statistiche da cui è possibile documentare la produzione di insaccati
in questa regione. Alle carni suine allevate sempre in Calabria, vengono aggiunti in fase di lavorazione cumino, pepe nero, pepe rosso e peperoncino, spezie e aromi provenienti da piante locali. La stagionatura varia dai 30 ai 100 giorni.
Si conclude qui la penultima parte sull’educazione alimentare. L’argomento della prossima rubrica, prima della chiusura estiva, riguarderà l’olio d’oliva e concluderà la carrellata degli invitanti prodotti gastronomici della nostra bella Italia per permetterci l’esplorazione di altri argomenti
riguardanti l’educazione alimentare in senso ampio.