Ben ritrovati con l’articolo di maggio per proseguire il viaggio nutrizionale-culinario nell’ambito dell’educazione alimentare, che come ben sapete ci terrà compagnia per qualche mese.
Ci eravamo lasciati con il tema formaggi da completare.
Nella provincia di Pesaro e Urbino abbiamo la Casciotta di Urbino DOP, le cui norme di produzione emanate risalgono ai Duchi di Montefeltro e dei Duchi della Rovere, fatta per tre quarti di latte di pecora e per il restante latte di mucca, a pasta friabile semicotta. In alcuni casi il latte ovino viene mischiato con il caprino in un delicato equilibrio di sapori, come per il Bra DOP, prodotto nelle valli e montagne di Cuneo a partire da fine Trecento (poi anche a Torino).
La fortuna commerciale di questo formaggio è antica. Veniva un tempo venduto dopo la stagionatura, anche nei mercati liguri, dove veniva usato come ingrediente per la preparazione del pesto (ora soppiantato dal Parmigiano). Nella stessa zona, di grande pregio caseario, si producono il Marzano DOP (tomino di latte ovino o misto ovino) e il Raschera DOP, formaggio semigrasso di latte vaccino, cui vengono fatte ogni tanto piccole aggiunte di latte ovino o caprino, che conferisce al sapore del Raschera, delicato e tipicamente profumato, una punta di piccante e sapido che compare durante la stagionatura.
Un altro formaggio “antico”, si fa risalire ai Celti, è il Bitto DOP Valtellina, con latte vaccino intero a cui può essere aggiunto latte caprino (meno del 10%). E’ un formaggio grasso a pasta semicotta, con crosta giallo paglierino, dolce e delicato, che diventa intenso con la maturazione, l’eventuale aggiunta di latte caprino ne intensifica il caratteristico aroma. Le stesse minime percentuali di latte caprino in latte vaccino si ritrovano nella preparazione del DOP Valle d’Aosta Fromadzo, più recente del Bitto (già conosciuto nel 1450).
La tradizione casearia italiana deve però molto alla produzione di latte vaccino, in particolare riguardo alla zona alpina. La Toma ad esempio, tipico formaggio semicotto è prodotto in molte zone del Piemonte (Valsesia e Langhe). In questa zona se ne producono, fin dall’epoca preromana, molte varietà più o meno grasse. Note ai nostri giorni sono di due tipi: a pasta morbida con latte intero e semidura con latte parzialmente scremato. Il nome di questo formaggio Asiago, risale al XXI secolo. Prende il nome dall’omonimo altopiano, conosciuto già dal Mille per i suoi pascoli generosi dove si allevavano esclusivamente ovini. Nel XVI secolo vennero introdotti i bovini. Oggi la sua zona comprende parte del Trentino e del Veneto. Più a est si trova la zona del Montasio DOP, la tecnica di produzione si fa risalire al XIII secolo ad opera dei monaci dell’abbazia di Moggio, sotto la cui giurisdizione ricadevano le malghe dell’alpe Montasio.
Il Montasio può essere consumato fresco (stagionato almeno due mesi) e mezzano e stagionato (oltre un anno). Molti altri formaggi portano nel nome la memoria di toponimi montani: il Formai de Mut dell’alta Val Brembana, che oltre a portare nella denominazione una valle, si dice “di montagna”, “mut” in dialetto. Un altro formaggio è il Monte Veronese, DOP di latte vaccino di sapore fragrante tendente al piccante con la maturazione. Un DOP recente anche alla trentina Spressa delle Giudicarie, uno dei formaggi più antichi dell’arco alpino e il più magro. La scarsità di grassi si deve a ragioni di economia che spingevano i contadini a smagrare il latte per ottenere quanto più burro possibile. La Spressa va mangiata giovane e si sposa bene con un piatto della tradizione, tipico locale, la polenta alla “carbonera”. Il goloso matrimonio con la polenta, caratterizza il più celebre formaggio montano la Fontina, prodotto in tutta la Val d’Aosta.
La storia ufficiale data il nome solo nel XVIII secolo, ma la nascita di questo formaggio grasso, prodotto con latte intero di mucca che deve provenire, da regola, da una sola e unica mungitura. Purtroppo in termini di grassi non scende sotto il 45%. I formaggi di latte vaccino non sono però solo un’esclusiva del Nord Italia. Il Ragusano, ad esempio, è prodotto esclusivamente da latte vaccino crudo proveniente dalle province di Ragusa e Siracusa. La crosta è liscia e di color giallo dorato paglierino, marrone verso fine stagionatura. La pasta è compatta nei primi mesi di stagionatura, il sapore dolce, poco piccante, gradevole al palato, ottimo come formaggio da tavola. A stagionatura avanzata, il sapore è decisamente più piccante e saporito, da grattugiare.
Dal Sud, a partire da fine Ottocento, proviene il DOP Provolone Valpadana, la cui produzione si attesta al nord del Po, a testimonianza del continuo scambio di tecniche e metodi fra le diverse zone. Di meridionale conserva la forma che può essere a “salame”, “conica”, “a pera”, ma non la dimensione aumentata grazie alle condizioni climatiche diverse. Il gusto può variare: caglio di vitello per il tipo dolce, caglio di capretto o agnello per il tipo piccante. Diverso discorso per la Mozzarella di bufala campana, orgoglio nazionale e ad alto rischio di contraffazione. La storia è legata all’allevamento di bufali presenti fra il Lazio e la Campania, fin dal XII secolo. Oggi la zona di produzione comprende le province di Caserta e Salerno e i comuni del Beneventano, napoletano, di Frosinone, Latina e Roma. Questo formaggio era inizialmente apprezzato solo in Campania ma dal XVIII secolo iniziò a diffondersi nel resto d’Italia.
La forma è tondeggiante, la pasta è filata, con crosta bianco porcellanato. Quando si taglia compare “la goccia” di siero, determinata dai fermenti lattici vivi che conferiscono il classico gusto. Alcuni formaggi poi devono il loro nome alla caratteristica forma. Il Canestrato pugliese, discende dalle “fiscelle”, canestri di giunco prodotte dai maestri “fiscellari”, dove si riponeva questo formaggio a pasta dura non cotta, ricavato dal latte di pecora e stagionato dai due ai dieci mesi. Oggi si produce solo nel Foggiano e in tutto il Barese. I nome del Caciocavallo silano, invece, dipende dalla consuetudine di appendere i formaggi “a cavallo”, di una pertica orizzontale, legati per l’apice con una corda, in modo da presentare una “testina” in cima. La produzione si allarga ben al di là della Sila. Su buona parte della Puglia. Della Calabria, della Campania. Qui chiudiamo la carrellata dedicata a molti invitanti formaggi e alle loro storie e tradizioni. Arrivederci alla prossima puntata di approfondimento su un altro alimento: la carne.