di Gabriele Pinosa
Joe Biden sarà il 46° Presidente degli Stati Uniti d’America
Salvo improbabili, quanto imprevedibili colpi di coda dell’attuale inquilino della Casa Bianca, il 20 gennaio il nuovo Presidente assumerà i pieni poteri. E, uno dopo l’altro, tutti (o quasi) i grandi leader mondiali si sono congratulati con lui: perfino il presidente iraniano Hassan Rohani, storico nemico degli USA, ha gioito, annunciando: “Ora si presenta un’opportunità per la prossima amministrazione americana di rimediare ai suoi precedenti errori e di tornare sul sentiero dell’adesione ai suoi impegni internazionali”. I mercati finanziari hanno festeggiato l’esito delle elezioni americane mettendo a segno, in termini di performance azionarie, uno dei migliori mesi di novembre della Storia.
E’ lecito chiedersi i motivi di tale euforia, oltre che quali siano i principali ostacoli con cui la nuova Amministrazione si dovrà confrontare. Il tema che rimarrà sullo sfondo è quello di un’America divisa, spaccata a metà, consegnato dall’esito elettorale. I sostenitori di Trump sono maggioranza in numerosi Stati del Paese e il tycoon non ha ancora riconosciuto la sconfitta, ascrivendo la vittoria dell’avversario a brogli elettorali. La storia personale di Trump dimostra che non ama perdere, quindi la transizione non si preannuncia semplice.
La data cruciale è il 14 dicembre, quando i grandi elettori votati dai cittadini americani eleggeranno il nuovo Presidente. Trump ha dichiarato pubblicamente che rispetterà tale decisione, dando però battaglia fino a un attimo prima. Il secondo elemento con cui Biden si dovrà confrontare è la Covid-19: è una sciagura nazionale che ha già fatto, secondo le statistiche, oltre 265.000 morti.
Non si tratta solamente di trovare delle soluzioni sanitarie – anche qui l’animo profondo del Paese continua ad essere diviso – ma soprattutto di disegnare il sistema americano post pandemia. In entrambi i casi Biden parte avvantaggiato. Vediamo perché. In primo luogo l’arrivo del vaccino e la sua distribuzione saranno in grado di migliorare fortemente non solo l’incidenza pandemica, ma anche il mood dei consumatori. L’economia a stelle e strisce si basa infatti per oltre due terzi sui consumi privati, colonna portante del settore dei servizi, messi a dura prova da lockdown e misure restrittive. Nonostante l’impennata delle vendite online abbia compensato il crollo dello shopping tradizionale, il tema principale riguarda l’occupazione: dall’inizio della pandemia si contano circa 11 milioni di posti di lavoro perduti. Quindi un’economia danneggiata che, malgrado il picco di downside si possa ritenere superato, ha bisogno di aiuto.
E’ qui il secondo vantaggio di Biden: quello di essere un’anatra zoppa (lame duck). Viene chiamato in questo modo il Presidente USA, quando il suo partito non ha la maggioranza in Senato, che al momento (il 5 gennaio è previsto il ballottaggio per 2 seggi della Georgia) è nelle mani repubblicane (50 contro 48). L’essere un’anatra zoppa è un vantaggio per Biden, e per il sistema finanziario, in quanto ciò eviterà una deriva eccessivamente progressista in termini fiscali, che avrebbe potuto danneggiare il sistema USA. Il supporto di Bernie Sanders alla vittoria di Biden è stato infatti cruciale, ma il suo voto porta con sé una richiesta di forti aumenti della tassazione ai ceti più abbienti e alla corporate. Biden, un centrista per convinzione, avrà dei buoni motivi per evitare di sostenere delle proposte di tale natura: l’opposizione ferma del Senato, dato che i repubblicani sono storicamente allergici ad ogni aumento della tassazione.
Perfino il previsto piano fiscale di stimolo all’economia dovrebbe vedere la luce con un ammontare equilibrato, frutto del necessario compromesso tra l’esorbitante proposta democratica (3.000 miliardi dollari) e quella minimalista repubblicana (500 miliardi dollari). Anche i nomi contano, e la presenza al Tesoro di Janet Yellen (chairwoman FED dal 2014 al 2018) è parsa più che rassicurante, stante la linea accomodante di politica monetaria da lei tenuta alla Banca centrale.
Tutto semplice, quindi, per President Jo? Non proprio. Le difficoltà maggiori potrebbero provenire dal fronte estero, con numerosi fronti aperti: quello commerciale con l’Europa, geopolitico Mediorientale e strategico con la Cina. Se Trump, salvo soprese, potrà essere archiviato, ciò infatti non significa mettere in soffitta il trumpismo, cioè la dottrina dell’”America First” che è fortemente radicata non solo in un’ampia porzione della popolazione americana, ma anche in una parte dell’establishment. Qui il Presidente più anziano della storia americana dovrà sfoderare tutta la sua esperienza, maturata a livello interno e mondiale, fin dalla giovinezza (fu eletto senatore in Delaware all’età di 29 anni). Il tema più rilevante è quello dei rapporti sino-americani, perché con esso si incrociano tutte le argomentazioni di maggior rilievo, sia a livello tattico che strategico. Pechino sta dimostrando una resilienza all’impatto pandemico pari a nessuno, con un’ampia probabilità di essere il vincitore del post Covid-19. Il sistema americano è pronto a cedere lo scettro del potere globale, detenuto da circa un secolo? Gli indizi a riguardo sono tutt’altro che rassicuranti; la Storia racconta quasi mai una potenza dominante ha lasciato l’egemonia a quella emergente, in modo pacifico. La vera sfida è qui: la gestione di una transizione di potere forse ineluttabile, ma irta di ostacoli. Per gestire la quale, Biden avrà bisogno della coesione delle forze in patria. Forse è proprio per questo che nel primo discorso da Presidente eletto ha richiamato il Paese all’unità, affermando: “I don’t see bue or red States, but the United States of America”.
Good luck lame duck! God bless America!